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A colpi di manifesti

Grafica e comunicazione politica negli anni Settanta

Una stagione irripetibile da raccontare semplicemente con la carta

 

Internet non c’era, tanto meno i social-network. Erano gli anni Settanta, una stagione complessa, dura e affascinante al tempo stesso, in cui la politica comunicava soprattutto attraverso lo strumento del comizio. Una sorta di avvenimento nelle piazze delle città italiane - perfino nei paesini più sperduti - che richiamava all’appuntamento non solo i simpatizzanti di una precisa parte politica. La radio e la televisione di stato – le prime emittenti private arriveranno solo alla fine del decennio – facevano la loro parte, ma senza quel peso specifico che andranno a conquistare in modo preponderante solo negli anni a venire. E allora, come si veicolava un messaggio? Come si annunciava un comizio? Quali erano gli strumenti per raggiungere le persone? Era la carta a fare la differenza. Manifesti, volantini e giornali che riuscivano a catturare l’attenzione.

Una tradizione antica quella dei manifesti, specie per una realtà come Trieste, che dei grandi cartellonisti quali ad esempio Marcello Dudovich poteva già vantare le campagne pubblicitarie delle catene alberghiere, delle compagnie marittime e dei grandi magazzini. Ma dietro alla grafica dei manifesti di partito non c’erano di solito nomi affermati nel mondo grafico o pubblicitario. Erano per lo più manifesti pensati in casa dal settore propaganda, ma proprio per questo originali e forse più genuini nel poter raccontare un percorso attraverso i testi, le immagini e il messaggio che si voleva lanciare. Tecniche grafiche diverse e anche comunicazione agli antipodi, oltre alle differenze politiche, che vedevano i manifesti diventare uno strumento universale di propaganda. Un genuino botta e risposta tra opposte fazioni a suon di slogan, simboli e soluzioni grafiche quasi mai banali.

Ecco che la mostra A colpi di manifesti. Grafica e comunicazione politica negli anni Settanta diventa una sorta di viaggio dal 1970 al 1979 per raccontare Trieste e l'Italia. Risulta così facile avvicinarsi a quel complesso periodo storico con la leggerezza indotta dal segno effimero dei manifesti, dai quali, a guardarli bene, viene fuori una Trieste forse diversa dagli stereotipi comuni. Una città non chiusa in se stessa – seppure condizionata dalle profonde ferite e divisioni del recente passato, in una realtà di confine dove l'attivismo politico è da sempre radicato nel tessuto sociale – ma aperta ai grandi temi del cambiamento e della partecipazione che, in mezzo ai gravi fatti di sangue che sconvolsero il Paese, contraddistinsero la stagione irripetibile degli anni Settanta.

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Per una breve storia degli anni Settanta tratta dai muri di Trieste

 

Esaurita la spinta utopistica della contestazione alle istituzioni partita con l'occupazione delle università italiane e proseguita con gli scioperi nelle fabbriche, gli anni Settanta esordiscono all'insegna della contrapposizione ideologica. Anche a Trieste, lo sdegno provocato dalle prime violenze terroriste e il timore giunto dai presunti tentativi golpisti ricompattano le forze politiche che si richiamano ai principi costituzionali dell'antifascismo. I partiti e le organizzazioni che hanno più degli altri goduto della vivace protesta giovanile si uniscono nel colpevolizzare univocamente il MSI, arrivando a chiederne lo scioglimento quale misura preventiva alla ricomparsa dei fenomeni di violenza politica. In particolare, nel mirino delle forze antifasciste finisce Giorgio Almirante, la cui politica del “doppiopetto” iniziava a dare i primi risultati concreti anche a livello nazionale. Se il PSI accomuna il segretario missino ai carnefici nazisti per i suoi trascorsi senza pentimenti a Salò, la sinistra autonoma va addirittura oltre e gli attribuisce specifiche responsabilità nel controverso periodo degli “anni di piombo”. Anche il PCI chiama alla mobilitazione generale contro il riaffacciarsi dello squadrismo in città, cui fa eco l'appello alla resistenza antifascista lanciato dalla DC in occasione della visita del nuovo Presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone. Il MSI risponde all'emarginazione politica indotta dalle pesanti accuse che gli sono rivolte chiamando più volte lo stesso Almirante a parlare nelle piazze cittadine non sempre sicure, mentre iniziano a cadere le prime congetture sui progetti eversivi attribuiti alla destra e si fa invece strada la teoria della “strategia della tensione”.

A tenere viva la contrapposizione ideologica sono soprattutto i giovani, che dopo l'emancipazione raggiunta con la rivoluzione “sessantottina” entrano in massa nei partiti o danno vita a esperienze autonome spesso radicali. A sinistra di PCI e PSIUP compaiono i collettivi di studenti e lavoratori che guardano all'esperienza dei movimenti rivoluzionari sudamericane, mentre inizia a diffondersi il mito del Che Guevara assieme alla sua immagine diventata simbolo di un'intera generazione in lotta. Dopo il colpo di stato militare che rovescia il governo socialista di Salvador Allende, prende piede anche a Trieste la campagna di solidarietà al popolo cileno lanciata dai partiti della sinistra europea, pronti a denunciare le forze della reazione internazionale. Al contrario, i giovani del MSI vedono la sovversione comunista alle porte e conseguentemente trova ancora spazio il sostegno all'intervento contenitivo degli americani in Vietnam. Sempre dal MSI arriva la campagna tesa a riconquistare il consenso perso nelle scuole e nelle università che passa per il rinnovamento delle proprie strutture giovanili, mentre la centralità assunta dalle nuove generazioni all'interno della società comporta la richiesta di estensione del voto ai diciottenni. Sono sempre i giovani a traghettare negli anni Settanta la vivace stagione culturale nata nelle scuole e nelle università occupate. Dai cineforum ai concerti, fioriscono le iniziative portate avanti da tutti gli schieramenti e spesso accompagnate dall'uscita di nuovi giornali o riviste. Se la sinistra inaugura circoli culturali e collettivi artistici che animano la locale vita intellettuale, la destra risponde organizzando a livello nazionale i formativi “campi hobbit” che uniscono politica e musica all'insegna dell'esperienza comunitaria.

Mentre la nuova generazione guarda decisamente al futuro decretando così la naturale scomparsa delle liste monarchiche e della destra oltranzista, i partiti sono costretti a fare i conti con il recente passato della città. A tenere banco nel dibattito politico locale è il trattato di Osimo che cede definitivamente alla Jugoslavia l'ultimo lembo dell'Istria ancora contesa, creando ulteriori malumori soprattutto per l'iniziale segretezza degli accordi. Il MSI denuncia il regalo fatto al comunismo internazionale e monta la vigorosa protesta di piazza contro i partiti governativi fautori del cedimento, riuscendo così a ritrovare quell'agibilità politica che stava perdendo a causa dell'emarginazione cui era sottoposto. Sostenuta in parlamento dal PCI seduto all'opposizione, la rinuncia della DC alla “zona b” diviene anche il pretesto per guardare alla politica nazionale e parlare di “compromesso storico”, proprio durante la fase terminale dell'esperienza amministrativa del centrosinistra cittadino. Anche la tragedia del vicino Friuli colpito dal terremoto trova spazio a Trieste, con i giovani del MSI che rivendicano un futuro comune all'insegna della ripresa economica e del riscatto sociale dell'intera regione.

Nonostante i tanti slogan di partito apparsi sui muri, la politica reale non riesce però a dare risposte alla crisi lavorativa che colpisce la città dopo la penalizzante riorganizzazione a livello nazionale del settore cantieristico navale, successivamente aggravata dalla chiusura di ulteriori attività industriali. Sono quindi i sindacati a intervenire e portare avanti la battaglia dei lavoratori pubblici e privati. Se a sinistra prosegue la campagna contro lo sfruttamento padronale e la repressione delle lotte operaie, la CISNAL risponde richiamandosi al sindacalismo nazionale per combattere il radicalismo giudicato disfattista della CGIL, mentre nel dibattito sociale trova spazio anche la “maggioranza silenziosa” che denuncia la portata negativa degli scioperi in termini di produttività. Ma il lento declino economico di Trieste alla lunga finisce per determinare una generale disillusione verso i partiti del tradizionale “arco costituzionale” che si sono spartiti potere e competenze negli anni perdendo però la fondamentale sfida con il futuro. Prevale allora il nuovo modello amministrativo all'insegna del municipalismo proposto dalla lista del “melone” nata con Osimo, che riscriverà la vita politica triestina nei successivi anni Ottanta quando anche la propaganda abbandonerà gradualmente i muri delle città per passare negli studi delle nuove televisioni private, pronte a diventare simbolo emblematico del nuovo decennio di rinnovamento e speranza.

L'associazione ha acquisito la mostra allestita da Pietro Comelli ed Andrea Vezzà nella primavera 2015 presso la Sala Umberto Veruda di Palazzo Costanzi con la collaborazione del Comune di Trieste

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